Jérôme Bel e il teatro disabile

Non è facile parlare dello spettacolo che è andato in scena ieri al teatro HAU Hebbel am Ufer. “Disabled Theater” è nato dall’incontro tra un coreografo famoso come Jérôme Bel e la compagnia svizzera di attori disabili mentali Theater HORA.

Di questo spettacolo non direi “non perdetelo assolutamente” ma se volete raccogliere una sfida andate a vederlo, quando sarà riproposto a Berlino per i Theatertreffen, a maggio.

Per me è stato così: un amico esperto e appassionato di teatro, del quale seguo sempre i preziosi consigli, mi ha detto di averlo visto e di esserne restato colpito, pur essendo partito con tutti le possibili perplessità. Saputo di cosa si trattava, mi sono trovata anch’io molto perplessa. Ma ho recuperato un filmato dello spettacolo presentato all’ultima dOCUMENTA (a Kassel me lo ero perso, nel mare di troppi video presenti) e ho capito che dovevo vederlo.

Ne sono rimasta anch’io profondamente colpita.

Il movimento è sempre il risultato di un pensiero, ma in questi corpi che rispecchiano la minore (in alcuni casi, per la verità, apparentemente nulla)  o maggiore gravità dello handicap mentale, questo legame tra danza e pensiero appare accentuato.

In alcuni casi l’impressione era che nella mente del danzatore ci fosse un movimento perfetto, come quello della prima étoile di un corpo di ballo. Mi tornava in mente la bellissima “Fata Morgana” di Martin Honert, perché in qualche modo anche qui non si vedeva solo il mucchio di sabbia ma un vero castello arzigogolato.

Chi ha ragione? I parenti degli attori che parlano di “animali al circo” e “spettacolo freak”, o gli attori che di se stessi dicono “sono un attore” (e un attore è fatto per esibire le proprie capacità sul palco) e giudicano bellissime le loro esibizioni?

Damian Bright in una foto di Michael Bause tratta dal sito dello spettacolo
Damian Bright in una foto di Michael Bause tratta dal sito dello spettacolo

Damian Bright, l’attore che su tutti più mi ha colpito, descrive il proprio handicap dicendo di essere troppo lento e aggiunge che a lui non dà fastidio la lentezza ma a sua madre dà i nervi.

Altri quasi si scusano del loro handicap o lo ammettono con grande sofferenza. Due o tre di loro hanno piccolissimi deficit, cose che in una società meno rigida e esigente ne farebbero delle persone normalissime. Chi è più avanti negli anni si dice “mongoloide”, usando un termine che un tempo era la norma.

Damian non si annoia seduto sullo sfondo mentre tocca agli altri, dice che medita in quel tempo. Lo si vede partecipare e guardare gli altri senza pregiudizio positivo e negativo. E guardando lui che non si pone problemi, mi dico che devo fare lo stesso, semplicemente guardare lo spettacolo, perché su un palco è questo che c’è, devo smettermi di irritarmi per alcune risate del pubblico (ma mi capita anche con spettacoli classici: trovo che nel pubblico si rida sempre troppo), devo smettere di sentirmi frastornata perché ogni tanto mi scenderebbe una lacrima.

Non succedono forse sempre tutte queste cose a teatro?

Molto interessante l’incontro con il regista e coreografo alla fine dello spettacolo. Bel ha raccontato che lui stesso inizialmente ha detto no alla proposta di lavorare con il Theater HORA, poi ha chiesto di poter stare tre ore con gli attori, quindi cinque giorni. In quei cinque giorni è nata la quasi totalità dello spettacolo, che quindi è una resa essenziale e senza elaborazione di alcuni topoi di Bel. Porre l’attore un minuto in silenzio davanti al pubblico, lasciare che si presenti e così via. Eppure in questo caso sembra che nessun altro coreografo e regista avrebbe potuto lavorare con questi attori.

Il lavoro dei mesi successivi, con l’idea di sviluppare lo spettacolo, è stato infruttuoso e tutte le vie sono state abbandonate. C’è stata solo una aggiunta sui giudizi, come una autoriflessione degli attori sullo spettacolo, e la decisione di non decidere, sostanzialmente, della qualità degli assolo, ovvero una autoriflessione del coreografo sullo spettacolo.

Bel dice che molti amici lo sconsigliavano: troppi rischi con il politically correct, l’accusa di voyeurismo, la manipolazione. Ma non è voyeurismo in sé il teatro? Non è manipolazione ogni coreografia? Dice di aver imparato molto da questi attori su cosa è il teatro e la danza, di aver visto chiaramente con loro che la danza è il pensiero.

Effettivamente è come se questo “teatro disabile”, questa eccezione teatrale, fosse alla fine di una normalità disarmante: è teatro, ed è tanto più normale, in quanto non si sforza di nascondere la disabilità o di mascherarla. Da questo punto di vista è sicuramente un’operazione riuscita.

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